Parlare alle bambine (e ai bambini)

La storia di me che scrivo comincia così: Latina, metà anni novanta, liceo classico Dante Alighieri. Il preside organizza laboratori di scrittura teatrale in collaborazione col Piccolo Teatro di Milano. Ho capito che mi piace scrivere e, anche se sono già la persona più timida che conosco, ho già la smania di mettermi alla prova che mi accompagnerà in futuro. Vorrei partecipare al laboratorio ma non ne sono sicura. Chiedo consiglio a una professoressa: “lei che dice, ci vado?”. Una ragazza interviene: “Ilaria, ti invito a riflettere: che contributo puoi dare tu a quel laboratorio? Partecipano Tizio e Caio [i brillanti della scuola, due studenti dell’ultimo anno], il livello è alto…”. Ha ragione a invitarmi alla prudenza, penso: non sono abbastanza brava, è meglio che non partecipi, anche per risparmiarmi un confronto umiliante.
 
Fast forward a circa vent’anni dopo. Accompagno un gruppo di adolescenti in visita a un orto. Un vivaista mostra come si usano la vanga e la zappa. Da ex ragazza di campagna non pensavo che una zappa potesse suscitare forti emozioni, quindi assisto con sorpresa al contrapporsi di due fronti di umore diverso. I ragazzi sono impazienti di cimentarsi con gli attrezzi; uno saltella, declamando a ritmo “voglio zappare! voglio zappare!”. Alla zappa poi sono impacciati, ma felici. Le ragazze, per paura di sembrare goffe, si tirano indietro. Nascoste in fondo alla fila impaziente dei compagni, sperano che il loro turno non arrivi mai. Infatti non arriva: quando, dopo tanti incoraggiamenti, si sono quasi convinte a provare, è ora di andare via. Insisto con il vivaista perché faccia dare loro almeno un colpo di vanga, ma lui non coglie. “Proverete la prossima volta”, dice. Cioè mai. Come previsto, le ragazze sono arrabbiate con sé stesse per non essersi fatte avanti quand’era il momento.
 
Questi due aneddoti li ho raccontati durante un incontro di Grammatica e sessismo, seminario-laboratorio permanente sul genere e le sue implicazioni sviluppato a partire da un’idea di Francesca Dragotto , che è linguista e docente all’università di Roma Tor Vergata. Mi era stato chiesto di riportare la mia esperienza di donna insegnante giornalista, e tra i due episodi percepivo un filo rosso. Mentre pensavo a come narrarmi ho capito che è stato l’insegnamento, più del giornalismo, a farmi avvertire la necessità di analizzare la mia storia personale in una prospettiva di genere e di rivedere sia il mio linguaggio che il modo di pormi nei confronti delle donne più giovani.
 
Ho riflettuto spesso sui modelli che hanno influenzato il mio percorso lavorativo e culturale, ma non avevo mai fatto troppo caso alle questioni di genere che si rivelano attraverso la lingua. Non ho mai avuto la sensazione di non essere rappresentata dalla grammatica. Neanche quando, fresca di laurea in lettere, ho iniziato a lavorare come addetto stampa. Lo dicevo al maschile perché le persone che mi circondavano trovavano che “addetta stampa” suonasse male. La definizione neutra “ufficio stampa”, nell’ambiente, era considerata più accettabile che sottolineare il proprio essere donne, in un contesto in cui i ruoli erano declinati perlopiù al maschile gli stili di comportamento si adeguavano a questa tendenza. “Addetta alle pulizie” si sarebbe detto, e probabilmente si diceva, fra le scrivanie della comunicazione che frequentavo, ma “addetta stampa” era da evitare: ufficialmente cacofonico, ufficiosamente squalificante. Finii per pensarlo anch’io, anche se in fondo la questione mi interessava poco.
 
Da giornalista, prima in una redazione e poi da freelance, anche sotto la guida di cape e direttori sensibili alle questioni di genere, non ho incontrato resistenza alle desinenze al femminile, ma nemmeno obbligo di utilizzarle, almeno fin quando non ho scritto per testate rivolte a un pubblico prettamente di donne. Ho moderato conferenze stampa dando il buongiorno “a tutte e a tutti”, ma ho anche risposto all’email di una lettrice costernata per l’uso del maschile in una newsletter rivolta a un pubblico vasto e le ho spiegato che applicando la regola del maschile prevalente non intendevo escludere nessuno, ma semplicemente esprimermi con brevità.
Però il dubbio di dovermi pronunciare più incisivamente in quanto donna ha iniziato a insinuarsi in me, poco a poco. Per esempio quando, nel 2014, durante un incontro che poteva preludere a una collaborazione occasionale, menzionai la giornalista Ann Friedman al mio interlocutore (che tra l’altro mi aveva chiesto “hai figli?”) e lui mi rispose parlando del giornalista Alan Friedman. Mansplaining, lo avrebbe chiamato Rebecca Solnit. “Comunque dicevo ANN Friedman”, puntualizzai in un tweet.
 
Mansplaining, disistima, sessismo quotidiano e #saidtoladyjournos (hashtag che raccoglie frasi sessiste dette a giornaliste): davanti alla scena della zappa tutto ha fatto clic. A scuola ho capito che la parità ha bisogno di modelli, ma anche di empowerment. Se auguro ai miei alunni e alunne di diventare uomini e donne capaci di confrontarsi tra loro, se voglio che si sentano e crescano pari tra pari, se intendo dare il mio contributo per una società dove le battute sessiste saranno considerate volgarità fuori moda, se auspico che tra donne ci si dica “prova!” anziché “non ce la fai”, non posso fare a meno di rendere ognuno/a presente e potente nella lingua con cui mi rivolgo al gruppo classe. “Ragazze e ragazzi”, “se una o uno di voi diventerà insegnante o astronauta”, “i vostri padri e le vostre madri”, “le casalinghe e i casalinghi”: nel dire le solite cose cerco non dare più per scontato il bisogno di sentirsi rappresentati (anche se sì, continuo a usare il maschile inclusivo quando mi pare più pratico o utile). La lingua, come si sa, informa il pensiero.
 
Quest’anno una giovanissima che conosco, per dimostrare che sa il significato di “promulgare”, ha scritto: “mia zia, che è presidente della repubblica, ha promulgato una legge”. Forse poteva dire presidentessa, ma non è questo il punto. La cosa più interessante, secondo me, è che non si è fatta problemi a pensare una donna alla presidenza della repubblica italiana. A me alla sua età, per esempio, non sarebbe ancora venuto in mente.
 
 
Letture utili:
La grammatica è sessista?, di Francesca Dragotto
Come crescere bambine ribelli e bambini illuminati, di Allison Vale e Victoria Ralfs, Sperling & Kupfer, 2017

 

Immagine del titolo: Photo by natalia peris on Foter.com / CC BY-NC-SA